Questa è una newsletter che segnala e racconta storie.
'Intuizione', in inglese, non si scrive 'Intweetion',
ma si pronuncia - quasi - nello stesso modo.
"It's hard to not get excited"
My life changed when I learned how to listen
In the beginning I fell in love with creating
I fell in love with dilating my experience of time within each of my senses
The filling of space with novelty
For me this experience of the present moment always resulted in a feeling of compassion
I began listening to everywhere and everything
I would go on walks and stop every few minutes to sit and just listen
I would find one source to listen to and then another
Theard so many polyrhythms, so many textures, so many amazing harmonies
The creativity felt infinite
I would listen to the way they play with each other
I would play with imagining nultiple sources as one source
This playful practice of listening is my teacher
I have learned some of the most invaluable mixing knowledge harmonic structures complex rhythms
and most importantly I have found a way to stay connected to why I create
This practice of listening has taught me to get out of the way when I am creating & when I am listening
It is not about me and what I want to say
Although that is a part of it
But to me my form of creating is about a conversation
Listening & responding
Listening & responding1
Queste parole (vi ho messo una sommaria traduzione in fondo), le ha postate giorni fa una musicista di cui vi ho già parlato in precedenza, che amo molto e che si chiama Kaitlyn Aurelia Smith.
Quello che stanno facendo le mani nella - splendida - foto di Steven Meisel è il cosiddetto “Gioco della matassa” anche noto come “Ripiglino” (anche se il secondo nome in realtà nasce con altra origine). Sono molto affezionato a questo gioco, che lego (no pun intended) a quel tipo di gioia ariosa, concessa dal tempo di un’adolescenza ancora abbastanza lontana.
Ultimamente l’algoritmo di Instagram mi fa imbattere molto spesso in una frase che dice più o meno: “The biggest communication problem is we do not listen to understand. We listen to reply” (l’originale dovrebbe essere “Most people do not listen with the intent to understand; they listen with the intent to reply”, ma l’ha scritta Stephen Covey e a me questi tizi della mindfulness manageriale stanno un po’ sulle scatole).
Comunque.
Una cosa che sto re-imparando a fare è “ascoltare”. Quello dell’Ascoltare - ho scoperto - è per me è un atto molto ampio, che coinvolge dinamiche diverse, diversi contesti, diverse intenzioni. Di uno degli aspetti di questo ‘atto’ ho già parlato ne “Il suono di tutto il possibile (tutto il possibile del suono)”, ma poi - appunto - ce ne sono molti altri, come quello legato al dialogo e al confronto; quello che a volte ci fa sentire minacciati e ci fa pensare a ogni possibile risposta prima di qualsiasi volontà di comprensione.
Le conseguenze di questa sconsiderata dinamica le conosciamo tutti: un affastellarsi sempre più rapido di frasi piene di paura (e aggressività), pacchi di “non volevo dire questo” e di agguati retorici che tendiamo al nostro interlocutore ‘manco fossimo Cato con l’Ispettore Clouseau.
Mentre respiriamo affannosamente ai lati opposti della stanza guardandoci in cagnesco, man mano che sbolliamo la rabbia, a volte ci viene in mente un’idea geniale: e se ascoltassimo cosa ha da dirci l’altra persona? Se ci mettessimo in ascolto? C’è - non lo scopro io, cvsd - una prossemica legata all’ascolto e c’è un ‘atto’ dell’ascolto anche in questo contesto. Mettersi in ascolto è restituire all’ascolto una connotazione attiva ma non prevaricante, non votata a qualcosa che seguirà l’ascolto (la Risposta - lo scrivo ironicamente con la maiuscola), quanto - piuttosto - partecipativa.
Il “Gioco della matassa” è una linearità che prende forma (e costruisce una forma) solo quando il Sopra e il Sotto e il ‘di lato’ si specchiano, si intricano, ‘accettando’ di sovrapporsi e confondere - rimodulare - la loro unicità (la loro linearità).
Allora dopo questa riflessione, rileggendo il testo di Kaitlyn Aurelia Smith, mi è venuta un’idea (magari è utile). Ho preso una frase e ho deciso di leggere da quel punto al contrario. Ci ho messo dentro delle considerazioni. Viene fuori una cosa così:
I would find one source to listen to and then another
- Cerchiamo (troviamo) delle fonti del suono
I would go on walks and stop every few minutes to sit and just listen
I began listening to everywhere and everything
- Impariamo ad ascoltare ovunque, qualsiasi cosa: fermandoci e ascoltando.
For me this experience of the present moment always resulted in a feeling of compassion
- Accettiamo di ascoltare con compassione chi/ciò che ci parla.
The filling of space with novelty
I fell in love with dilating my experience of time within each of my senses
In the beginning I fell in love with creating
- E vabbe’, poi insomma si capisce.
Mi sa che sono stato più vago del solito.
Portate pazienza che qua siamo tutti un cantiere a cielo aperto.
UN DISCO / ALCUNI DISCHI
Lui si chiama Jonah Parzen-Johnson, esce per la We Jazz Records di Helsinki, e qualche sera fa, sono andato ad ascoltare il suo concerto. Saletta-tunnel del 30formiche apparecchiata coi tavolini per l’occasione, luci basse, set minimale: sax baritono e flauto traverso (in un paio di pezzi). Microfoni (due), zero effetti. Jonah è un ragazzone molto buffo, un musicista molto talentuoso, con un senso dell’ironia e dello stare al mondo che colpiscono positivamente. Comunque. Questo disco si chiama “Imagine giving up” perché a Jonah è successa una cosa che a un certo punto del concerto ci ha raccontato. Jonah ci ha raccontato che un giorno si è svegliato stanco e stufo di tutta questa retorica del “Don’t give up”, del farcela sempre, a tutti i costi. Del raggiungere obiettivi perseguiti più per il senso del dovere, del ‘non mollare’, piuttosto che per un senso reale attribuito a ciò che stava (stiamo?) facendo. E allora si è chiesto: ma se io mollassi il colpo? Cosa succederebbe?
E insomma Jonah ci ha raccontato che ogni sera, prima di addormentarsi, ha iniziato a immaginare di mollare. Come il titolo del disco. E sapete cosa è successo? - ci ha chiesto - è successo che ho iniziato a divertirmi. Un sacco. A divertirmi mentre faccio le cose. Risate sue, risate nostre, “mò vi suono ‘sto pezzo” (non ha detto proprio proprio così, Jonah è nato a Chicago).
Se avete un secondo di pazienza io riacchiapperei il discorso fatto in cima alla newsletter. Unirei i puntini, tanto per cambiare. E proverei a dire che mollare il colpo, cedere un po’ (imagine giving up) ecco io penso che serva pure per parlarsi, per comunicare bene, per scoprire cosa gli altri hanno da dirci o (occhio che salgo) cosa abbiamo da dirci attraverso gli altri.
Maro’, il solito esagerato.
Musica.
Lui invece si chiama Dylan Henner compone ambient minimalista ed è - molto - difficile trovare informazioni che lo riguardino. Se ci aggiungete che la descrizione sulla pagina Bandcamp recita: “Music in search of meaning”, che il suo ultimo album è ispirato a “Le città invisibili” di Calvino e che quello precedente è un concept sulla morte che contiene brani con titoli come “With Her First Ever Steps She Walked To Me and She Was So Happy”, capirete bene come il sottoscritto sia completamente impazzito e sia corso a scriverne nella newsletter per condividere il talento di questo schivo musicista con tutti voi. Spiegare perché lo stile compositivo di Henner sia così affascinante non è cosa semplice (quelli di The Quietus ricorrono a un parallelo per nulla peregrino con un disco di cui vi avevo parlato molto tempo fa). Io provo a dire la mia sottolineando il fatto che il suo lavoro risponde a una grammatica che impone la ripetizione come una forma di comprensione. Al posto delle parole o dei concetti, Henner ripete la loro trasposizione in musica: ascoltandolo non ho mai un’esperienza di quasi-trance (alla Riley, per capirci), ma mi sembra piuttosto di approfondire progressivamente quello che sta ‘dicendo’ con la reiterazione di suoni e dinamiche.
Conclusione forse banale: “You Always Will Be” è un disco bellissimo.
Di lui invece si sanno più cose perché è in giro ormai da un po’, è un genietto dei modulari e ha collaborato con personaggi più o meno noti. Si chiama M. Geddes Gengras e ha licenziato questo pazzesco “dual optics” che è un disco un po’ malinconico, croccantissimo di foglie autunnali e suoni che vi saltano gocciolanti nelle orecchie. Sto esagerando? No. Infilate le cuffie migliori che avete e poi mi dite.
Emahoy Tsegué-Maryam Guèbrou è stata una pianista dall’incredibile talento. Nata e vissuta in Etiopia (qui trovate un audio-documentario sulla sua vita), è rimasta sconosciuta fuori dai confini della sua patria fino al 2006, quando il musicologo francese Francis Falceto ha compilato una raccolta dei suoi brani in un disco pubblicato all’interno della serie “Ethiopiques”. Dotata di un lirismo che univa in modo perfetto la sua tradizione culturale a suggestioni europee (Satie), Emahoy Tsegué-Maryam Guèbrou è un - luminoso - nome da riscoprire. Magari iniziando proprio da qui:
Se (come il sottoscritto prima di imbattersi in questo articolo) non sapete chi sia Barbara Nessim, è ora di scoprirlo: Early computer art by Barbara Nessim (1984)
UN LIBRO / DEI LIBRI
“Polvere e ossa” è una specie di saggio / biografia / romanzo che parla di un duello nel (Far) West. Il duello non è fra due abili e spregiudicati pistoleri (anche se uno dei due spara che non le manda a dire), ma fra due paleontologi. Edward Drinker Cope e Othniel Charles Marsh si sfidano in un arco temporale di cinquant’anni e la storia - le storie - incredibili e pazzissime prodotte da questa sfida, da questo duello, ce le racconta un certo Gabriele Ferrari. Ce le racconta, va specificato, con rarissima abilità a calibrare aneddoti, incroci e toni: quindi ‘sto libro pubblicato da quelli di Codice Edizioni (bravi), ve lo bevete che ‘manco l’acqua agli assetati. Nel frattempo, come nella migliore saggistica di impronta narrativa, imparate pure delle cose e buttate un’occhiata acuta a un mondo complesso e da sempre orrendamente descritto in modo oleografico come quello della frontiera americana.
Sto leggendo pure “Ritual. Storia dell’umanità tra natura e magia” dell’antropologo Dimitris Xygalatas. L’idea di partenza non è nuovissima (anche se è relativamente recente) e risponde a quella corrente di pensiero storico-antropologico che ipotizza la creazione dei insediamenti umani per meglio mettere in atto dinamiche rituali/aggregative. Da qui un approfondimento scritto con grande capacità di trasmettere una curiosità incessante e vorace. Mettetelo in lista.
Ah, già, nel frattempo è anche uscito “Quantum Listening”, secondo capitolo sul Deep Listening di Pauline Oliveros, che qui spinge ulteriormente oltre il potenziale delle sue pratiche. ‘Stavolta vi beccate in aggiunta i contributi di Laurie Anderson, IONE, Diana Lola Posani (che nel frattempo ho finalmente conosciuto) e Andrea De Franco. Se leggete abitualmente Intweetion sapete già cosa fare. Se è la prima volta che leggete la newsletter, iniziate dal libro precedente e poi attaccate questo.
UN PODCAST
Ivan (Carozzi) è uno che quando si mette in testa di raccontare una storia assume un atteggiamento che è un mix tra il febbrile e il geometrico. Lo vedi (l’ho visto) mentre ci parli: sta seguendo dei ‘fantasmi’ che sono i personaggi del suo racconto, intenti a fuggire dai ‘fili’ che Ivan gli lega con precisione attorno. L’ultima fatica si intitola “Fetus-Quando si nasce”, realizzata per i 25 anni del Danae Festival, e parla appunto di “Fetus”, il primo disco di Franco Battiato. Quello che si sviluppa in un’ora circa di podcast è un collage vocale e sonoro che ri-scrive il disco (la nascita, sarebbe da dire) e ne parla e lo amplia e lo smembra, ricomponendolo. Un lavoro quasi onirico, bellissimo.
Non credo proprio riuscirò a inviare questo numero di Intweetion prima della notte di Halloween, ma vi propongo comunque un podcast ‘a tema’ perché è bellissimo, appassionante, realizzato con grande cura e - soprattutto - in grado di spaventarvi moltissimo. Si intitola Otherworld, lo conduce e realizza Jack Wagner che, con un efficace e sentito approccio giornalistico, ci racconta storie paranormali con risvolti spesso profondamente umani - tutt’altro che ‘ultraterreni’. Attivate le notifiche ché merita.
Ho recentemente scoperto che il “Quartiere latino” di Parigi si chiama così perché era la zona della città dove confluivano i precettori da tutta Europa e insegnavano ‘pubblicamente’ le rispettive conoscenze. Il latino era la lingua comune per poter interagire, nonostante i diversi idiomi d’origine. L’ho scoperto ascoltando il podcast che dovrebbero ascoltare tutti quelli che non ne possono più dell’enfasi da youtuber gonfio di merendine di Barbero e derivati, ovvero: “Weird Medieval Guys”.
Seguiteli, amateli.
UN VIDEOGIOCO
Come si dice in questi casi: non c’è bisogno di presentazioni. Half-Life compie 25 anni e questo è un documentario sulla sua creazione.
UN FILM
Ennesimo titolo che quando uscirà la newsletter avrete probabilmente visto in moltə, “Anatomy of a Fall” è il film con cui Justine Triet si è portata a casa la Palma d’Oro a Cannes 2023 e un’altra vagonata di premi in giro per il mondo. Thrillerone di quelli girati e sceneggiati coi controfiocchi, “Anatomy of a Fall” (Anatomie d'une chute) è una storia che vi piglia per la collottola e vi sbatacchia come un cencio mentre provate - inutilmente - a farvi un’idea, mentre cercate di raggranellare una morale; finisce invece che vi sciogliete in due minuti scarsi: tanto dura la scena risolutiva del film che - ovviamente - non risolve un bel nulla. Justine Triet usa in modo molto intelligente e funzionale una distanza linguistica (i tre protagonisti alternano francese e inglese con relative difficoltà di espressione e vocabolario) e la barriera fisica di un figlio ipovedente che dovrebbe testimoniare ma (non) sceglie di (non) farlo. Adesso non immaginatevi un film cerebrale o convoluto, né un inno all’incomunicabilità: “Anatomie d'une chute” è un thriller assolutamente godibile, hitchcockiano quasi nella fluidità dei meccanismi, eppure profondissimo. La Tiret scava e scava e non si ferma davanti a nulla: piazza la camera spesso dove non potrebbe (il sopralluogo alla finestra), si ‘inventa’ controcampi che non sono organici ai movimenti in scena, campi lunghi quasi voyeuristici (ho detto quasi) come una reporter, ma così efficaci da potersi poi permettere anche stacchi e tagli quasi televisivi nelle scene in tribunale. Gli attori da segnalare sono praticamente tre: Sandra Hüller, Antoine Reinartz (il Pubblico Ministero) e il fenomenale Milo Machado Graner che a 13 anni sfodera un talento non comune. Correte a vederlo (in lingua originale).
La mia passione per i documentari è cosa nota da tempo (qui, più probabilmente, a chi mi segue dai tempi di Tinyletter), quindi accolgo con molto piacere questo Rocumentaries che scova e seleziona i documentari presenti sulle piattaforme di streaming - gratis e a pagamento. Se poi siete in cerca di altro…
"It's hard to not get excited"
My life changed when I learned how to listen
In the beginning I fell in love with creating
I fell in love with dilating my experience of time within each of my senses
The filling of space with novelty
For me this experience of the present moment always resulted in a feeling of compassion
I began listening to everywhere and everything
I would go on walks and stop every few minutes to sit and just listen
I would find one source to listen to and then another
Theard so many polyrhythms, so many textures, so many amazing harmonies
The creativity felt infinite
I would listen to the way they play with each other
I would play with imagining nultiple sources as one source
This playful practice of listening is my teacher
I have learned some of the most invaluable mixing knowledge harmonic structures complex rhythms
and most importantly I have found a way to stay connected to why I create
This practice of listening has taught me to get out of the way when I am creating & when I am listening
It is not about me and what I want to say
Although that is a part of it
But to me my form of creating is about a conversation
Listening & responding
Listening & responding
"È difficile non emozionarsi"
La mia vita è cambiata quando ho imparato ad ascoltare. All'inizio mi sono innamorata dell’atto creativo. Mi sono innamorata della dilatazione della mia esperienza del tempo attraverso ciascuno dei miei sensi. Il riempire lo spazio con la novità. Per me questa esperienza del momento presente si traduceva sempre in un sentimento di compassione. Ho iniziato ad ascoltare ovunque e qualunque cosa. Andavo a passeggiare e mi fermavo ogni pochi minuti per sedermi e mettermi semplicemente ad ascoltare. Trovavo una fonte da ascoltare e poi un'altra. Sentivo così tanti poliritmie, così tante strutture, così tante, sorprendenti armonie. La creatività sembrava infinita. Ascoltavo il modo in cui le fonti del suono interagivano tra loro. Giocavo immaginando molteplici fonti sonore unite in un'unica fonte di suono. Questa pratica giocosa dell'ascolto è il mio insegnante. Ho imparato alcune delle più preziose conoscenze sul missaggio, sulle strutture armoniche, sui ritmi complessi e, cosa più importante, ho trovato un modo per rimanere in contatto con il motivo per cui creo. Questa pratica dell'ascolto mi ha insegnato a farmi da parte quando creo e quando ascolto. Non riguarda me e ciò che voglio dire, anche se ne fa parte. Ma per me, il mio modo di creare è come una conversazione.
Ascoltare e rispondere. Ascoltare e rispondere.