Questa è una newsletter che segnala e racconta storie.
'Intuizione', in inglese, non si scrive 'Intweetion',
ma si pronuncia - quasi - nello stesso modo.
E insomma per questa puntata della newsletter mi ero quasi deciso a mettere solo un buon numero di link e a non condividere la solita - minima - quota di riflessioni del periodo. Ma poi succedono un sacco di cose (menomale) e io macino chilometri e rifletto e mi dico che parlarne un po’ qui non è poi una cattiva idea. Magari si genera uno strano tipo di “riflessione collettiva”, le menti si ‘parlano’ e chissà: viene fuori qualcosa di utile.
Iniziamo.
In questo momento nella mia città c’è un delirio di eventi e cose interessanti da vedere, ascoltare, esperire in vario modo. Mentre scrivo sta finendo “Short Theatre”, inizia il “Romaeuropa Festival”, inizia pure il festival di fotografia contemporanea “Charta”… un casino. L’altra sera mi sono arrampicato (in motorino ok, ma poi anche a piedi per le ‘scorciatoie’ della Rampa di Monte Aureo) fino alla Real Academia de España en Roma perché era in programma una performance di Diana Lola Posani. Vi avevo già parlato del suo lavoro di facilitatrice del Deep Listening di Pauline Oliveros: ‘stavolta ci ha radunati nel chiostro dell’accademia e ci ha fatto ‘sentire’ (le virgolette servono più che mai) “Scream As If Your Organs Were Made of Glass”.
Ora.
Io non mi vorrei soffermare sulla sua performance: primo perché mi pare difficile raccontarla come meriterebbe (le parole sul sito fanno quanto necessario), secondo perché in realtà qui vorrei provare a ragionare su altro.
Molti di noi (alzo la mano per primo, figuriamoci), hanno attraversato, attraverseranno o stanno attraversando periodi più o meno lunghi in cui smettono di ascoltarsi. “Molti di noi”? Estendiamo pure la cosa a tutti, consapevoli e non. Quei periodi hanno significati molto diversi per ognuno. C’è un ascolto mancato legato al corpo, un mancato ascolto delle proprie aspirazioni, del proprio desiderio e delle sue forme, delle proprie paure; un ascolto mancato di noi stessi anche attraverso chi abbiamo attorno e ci chiede aiuto o, semplicemente, una chiacchierata in più. Un ascolto mancato che - solitamente - interpretiamo in senso lato: usiamo il termine ascolto, ma non implichiamo nulla di ‘sonoro’, di ‘acustico’.
Semmai, associamo (spesso col senno di poi) i momenti di mancato ‘ascolto’ a grandi fasi di silenzio. La dissociazione, da una o più parti di noi, è silenziosa; al più perforata da un fischio sordo, un acufene fastidioso e prolungato (ho sempre pensato che questo effetto nei film fosse davvero la sonorizzazione ideale per i momenti in cui il/la protagonista viene messo/a a parte di un dramma, di un dolore).
Successivamente alla performance, si sono unite alla Posani, Piersandra Di Matteo e Giulia Crisci per il talk “Ecologie dell'ascolto”. Anche qui, vado al punto che mi interessa per il discorso (voi approfondite appena potete): durante Short Theatre NERO edizioni sta pubblicando alcuni testi (“Short books” in una collana nata per l’occasione) e uno di questi è “Giustizia acustica. Ascoltare ed essere ascoltati” di Brandon LaBelle, sound artist e teorico statunitense.
In questo testo - taglio con l’accetta - si analizzano le forme politiche e di potere che precludono alcuni ascolti: ciò che possiamo o non possiamo ascoltare può essere influenzato da condizioni sociali, da gestioni dello spazio strutturali o perché lo spazio è alterato dal ruolo di diversi soggetti. Per contro, LaBelle insiste invece su una sintonia sonora di tipo relazionale e su un’attenzione alla nostra ricettività che portano a nuove pratiche, rivoluzionarie e immaginifiche, capaci di riscrivere i rapporti e le idee (qui ovviamente si inserisce con grande naturalezza il Deep Listening e la (gioiosa) permeabilità dei suoni che esplora la Posani).
Uniamo i puntini? Uniamo i puntini.
Interrompere l’ascolto di sé può dipendere da molti fattori. Sicuramente non ci aiuta approcciare noi stessi in modo normativo, legato a contesti costrittivi che accettiamo, ma non ci appartengono. Sicuramente interrompere l’ascolto di noi stessi significa interrompere una sintonia, che ci relaziona con chi siamo e - conseguentemente - con chi abbiamo attorno. E chi abbiamo attorno può rappresentare un limite, a volte. Un limite sensoriale (non solo acustico). Non ci ascoltiamo perché - per varie ragioni - chi ci circonda ci restituisce un’immagine che ci confina, che potrebbe non aver niente a che vedere con noi, ma solo con loro stessi. Queste mancate sintonie, questo ascolto della nostra ‘voce’ così pesantemente influenzato dalle altrui convinzioni, dalla altrui voglia di vedere anche negli altri i propri limiti invece di sperare che ognuno si liberi di quelli che lo opprimono, non ha nulla di gioioso. Nulla di permeabile. Non ha nessuna sintonia relazionale. Anzi.
Allora io credo che una cosa l’ho capita ed è che la pratica dell’ascolto (profondo), un ascolto che si muove secondo una “giustizia acustica”, una sensibilità accurata, che sperimenta e non ha paura di scoprire cosa c’è dentro il suono e oltre; io credo che questo ascolto lo si può rivolgere pure verso se stessi. Che l’attenzione che ho (io per primo) messo tante volte nel lavoro artistico e musicale (sonoro) di qualcuno, che ha risuonato così tanto in me, può e deve essere diretta anche ad altri ambiti. Anche a quello che diciamo a noi stessi. Come stessimo facendo una specie di field recording di ciò che siamo. Che siamo: perché non c’è sintonia che non preveda una relazionalità.
Volevo inviare una newsletter quasi di soli link, e invece guarda un po’ che cavolo ho combinato.
River is a visual connection engine. Clear your mind and surf laterally through image space.
Dove dormono i bambini? Bellissimo il progetto “Where children sleep” del fotografo James Mollison. Qui anche un articolo del Guardian con altre foto e le storie raccontate.
UN LIBRO / DEI LIBRI (e tutto ciò che li riguarda)
Sto proseguendo (più lentamente di quanto vorrei) nella lettura di “Come parlare il balenese” di Tom Mustill. Il libro racconta di uno studioso che non conoscevo: il dottor Roger Payne - purtroppo venuto recentemente a mancare. Payne è famosissimo per essere stato uno dei primi a registrare i canti delle Megattere e a scoprirne i pattern. Negli anni ‘60, dopo aver ascoltato gli audio di William Schevill, si recò con la allora moglie Katharine Boynton Payne nelle Bermuda e, con l’aiuto di un ingegnere navale impegnato in un sottomarino, riuscì a immortalare su nastro le ‘voci’ di una famiglia di questa meravigliosa specie di balene. Dopo gli anni della mattanza avvenuta alla fine del decennio, il lavoro di Payne regalò al mondo una nuova sensibilità ambientalista, in particolare verso i cetacei e il mondo marino, anche grazie alla pubblicazione di un disco. Questo:
(Qualcuno ha deciso di realizzarne una nuova versione, con altre balene.
La trovate qui)
Non so se questo numero della newsletter uscirà prima (dubito), ma il 13 settembre arriva in libreria “Exit reality”, il nuovo lavoro di Valentina Tanni che si anticipa abbastanza imperdibile. Dalle parole sul sito dell’editore (NERO):
Exit reality è il primo tentativo di mappare un mondo che, intriso di spiazzanti qualità allucinatorie, ci appare come un pianeta parallelo emerso dalle galassie del codicespazio. A partire dall’avvento della vaporwave, che nei primi anni Dieci infuse di qualità fantasmatiche l’immaginario nativo della rete, Valentina Tanni ci accompagna in una discesa tra i livelli che passa per l’orrore silenzioso delle backrooms, sfiora l’ossessione per la stimolazione sensoriale dell’ASMR, attraversa il surrealismo algoritmico del weirdcore, e approda alle pratiche pseudomagiche del reality shifting e dei rituali memetici.
Sempre nei primi giorni di settembre è uscito per Il Saggiatore anche il nuovo lavoro di Laura Tripaldi (che ormai sto citando fin troppo). Si intitola “Gender tech. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne”. Di cosa parla? Di cose come questa: “Uova di rana. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne”.
Il 5 settembre è uscito “Il capo”, cioè il nuovo romanzo di Francesco Pacifico. Io sono - molto - di parte quando si tratta di Francesco, ma ho deciso di fregarmene e infatti ho parlato spesso di lui nella newsletter. Ho deciso di fregarmene del fatto che sono di parte soprattutto perché mi sembra una scelta in linea con la sua scrittura. Oltre la - indubbia - qualità della sua narrazione (siamo su livelli di eccellenza e maestria rare), Francesco può vantare un coraggio che raramente si incontra in giro: quello di mettere profondamente in discussione la sua identità e la sua ‘voce’: di persona e di scrittore, insieme. Provateci e poi - se sopravvivete - me lo venite a raccontare. Mentre continuo a scrivere questo numero della newsletter, sono andato alla presentazione del romanzo al Monk. Atmosfera da salotto di casa molto allargato, Sara De Simone e Peppe Fiore bravi e generosi. Momenti di emozione perché, insomma, quando si scende così in profondità e ci si rende vulnerabili poi le cose accadono e infatti in un paio di momenti l’aria s’è fermata e un sacco di fianchi si sono sistemati sulle sedie (quando accade attraverso l’arte è ‘solo’ ancora più doloroso e splendido). Ah, non ho parlato del libro. Fidatevi e leggetelo: ogni tanto è perfino bello poter dare per ‘scontato’ il talento e godersi pigramente la sua messa in atto.
Sempre a proposito di cetacei, è uscito “Undrowned. Lezioni di femminismo Nero dai mammiferi marini”. L’autrice è Alexis Pauline Gumbs, poeta, attivista e studiosa che parte dai mammiferi marini per sviluppare una serie di “pratiche queer, sovversive, compassionevoli, trasformative”. Se l’origine di questo luminosissimo discorso vi disorienta, posso solo suggerirvi di continuare a lasciarvi disorientare. Questo è un testo che vi ripaga con ondate di bellezza e intelligenza, mentre insegna un sacco di cose alla parte migliore e più ricettiva di voi. Non vi ho convinti? Va bene. Andate sulla pagina del sito di Timeo (o in libreria: mi piace pensare che apriate ‘sta newsletter nei posti più assurdi) e leggete la quarta di copertina. Se invece spedisco prima “Intweetion” e siete a Roma, ci vediamo alla presentazione martedì.
UN FILM
Ho finalmente (?) visto “Barbie”. Vorrei scriverne molto, ma lo hanno già fatto persone più o meno titolate, più o meno in buona (cattiva?) fede, più o meno femministe, più o meno maschiliste, più o meno innamoratə di Margot Robbie, più o meno invasatə per Ryan Gosling (cane, canemaledetto, quindi perfetto per l’inespressività di un personaggio-giocattolo MA per sempre inspiegabilmente meraviglioso in “Lars and the Real Girl” - film ca-po-la-vo-ro). Quindi di “Barbie” in buona sostanza non si può scrivere, o meglio, si può a patto di accollarsi una tale quantità di rotture di scatole che… ufffffffff che noooia. Quindi dirò solo che mi è molto piaciuto. Che soprattutto i primi dieci minuti sono feroci e scritti benissimo, che Greta Gerwig de mi corazón è sempre più brava e che secondo me dovrebbero esistere più film così. Nonostante i difetti.
Non ricordo affatto se avevo già accennato qualcosa o forse avevo solo postato il trailer, comunque ho finalmente visto “Talk to me”. L’horror (girato dai gemelli Danny e Michael Philippou, scritto da Danny Philippou e Bill Hinzman e basato su un concept di Daley Pearson) sta macinando spettatori: al momento in cui scrivo siamo a quasi 70 milioni nel mondo - godendo a mio parere di un successo strameritato. Iniziamo lo slalom degli spoiler. La storia è quella di una mano imbalsamata che è un tramite tra il mondo dei morti e quello dei vivi: chi la stringe (sì, proprio tipo ue’, piacere!) deve chiedere allo spirito di parlare (il titolo) e poi ‘acconsentire’ all’ingresso nel proprio corpo. Possessione? Una specie. Tutti o quasi i giovanissimi personaggi del film (Sophie Wilde ruba la scena a tutti) hanno a che fare a vario titolo con un lutto e con la sua difficile elaborazione. Il film è tecnicamente molto riuscito (i gemelli arrivano da roba gore pubblicata su YouTube a nome RackaRacka…), calibra bene i meccanismi dell’inquietudine tra i jumpscare e il gore puro, è scritto con qualche accelerazione di troppo - l’altro lato della medaglia della loro formazione? - e spaventa a dovere. Il valore aggiunto è nella profonda, asfissiante riflessione che non abbandona mai lo spettatore: come si gestisce la morte di una persona cara. Cosa arriviamo a pensare (a pensare di essere?) per venire a patti con la scomparsa di qualcuno che abbiamo amato? Cosa esattamente ci tiene legati a quell’universo di sofferenza? Pesantuccio? Secondo me sì. “Talk to me” è un film impossibile da godersi come horror 'e basta’: è un film che scava e disturba e colpisce senza troppi complimenti, proprio lì dove sa che possiamo cedere. Applausi.
UN DISCO
Il nome è giapponese ma lui (?) è irlandese. Che musica fa? Difficile da definire: un’elettronica strumentale che ha forti riferimenti cinematografici (su Bandcamp chiamano giustamente in causa lo Studio Ghibli - i momenti più ‘giocosi’ di Hisaishi), ma ci sono derive quasi ambient in questo “Rain Over Mountain” e momenti di indietronica stralunata. Procuratevi anche il precedente “Museum Haze”, che flirta più spesso con il folk britannico e merita altrettanto. Ah, se ve lo comprate, il ricavato della vendita va alla Motor Neurone Disease Association.
Time Wharp è il progetto della producer Kaye Loggins, nata ad Atlanta e di base a Brooklyn. Il suo nuovo disco si intitola “Spiro World (or One Must First Become Aware Of The Body)” e me ne sono innamorato pochi minuti dopo aver cliccato sul play della pagina di Bandcamp. Il titolo viene dal nome di una medicina e il disco mette in musica le esperienze vissute in relazione a farmaci e problemi legati al funzionamento del proprio corpo. Ora. Voi vi starete - ragionevolmente - immaginando un disco cupissimo e devastante: invece no. Invece “Spiro World” è un disco pieno di gioia, di cura e attenzione per i suoni, di soluzioni ritmiche che procedono in modo curioso, quasi inquisitorio, nei territori più personali. Un lavoro di grandissima maturità, un disco sbalorditivo.
La persona a cui voglio molto bene e a cui ho chiesto compagnia per andare a vedere la mostra di Kazuko Miyamoto al Madre di Napoli, ha postato qualche giorno fa questa canzone*:
Non conoscevo Salvio Vassallo, né la voce di Valentina Gaudini. Il disco da cui è tratto questo pezzo incredibile - la cui interpretazione è altrettanto incredibile - si intitola “Il tesoro di San Gennaro” ed è uno svicolare nella planimetria caotica e affascinante della tradizione partenopea attraverso l’elettronica, l’avanguardia e il folk. I momenti più strettamente ritmici (imho) funzionano molto meno bene degli episodi in cui sia la voce che il talento di producer si prendono più tempo e agio; in ogni caso, disco splendido che vi straconsiglio insieme a “Remembering The Future (A Journey into the Folk Songs of L.Berio)” e l’ultimo “Arie Lamenti & Other Noises”, meno immediato, ma ancora più efficace nell’indicare una via futura per questo - coraggiosissimo e luminoso progetto.
*L’originale pare risalga al tredicesimo secolo e fosse un canto di protesta contro le dominazioni straniere della città.
UN VIDEOGIOCO
Perfetto per i momenti in cui ci si vuole distrarre un po’, difficoltà molto ben calibrata e fascino tutto ‘80s (è una specie di Pitfall! velocizzato), Mr. Platformer di Terry Cavanagh è leggerissimo e super-divertente.
Micro Mages è un platform programmato qualche anno fa per Nintendo NES, che occupa appena 40kb. Il gioco per Windows e emulatori vari (la ROM) è qui. La cartuccia per il Nintendo invece è in vendita qui.
WipEout è stato uno di quei giochi per cui si può usare serenamente il termine spartiacque. Il racing game futuristico era velocissimo, con un design dei veicoli meraviglioso (un po’ “Tron” un po’ Moebius) e una colonna sonora che iniettava adrenalina attraverso i condotti uditivi. Ora Dominic Szablewski (un programmatore pieno di buona volontà e talento) ha realizzato un eccellente porting per il web. Ci giocate qui.
*il titolo di questo numero è una ‘storpiatura’ ragionata e istintiva insieme di una frase della coreografa franco-algerina Nacera Belaza: "Volevo che il mio corpo fosse il posto di tutto il possibile”.