Questa è una newsletter che segnala e racconta storie. 'Intuizione', in inglese, non si scrive 'Intweetion',ma si pronuncia - quasi - nello stesso modo.
Desideravo moltissimo andare a vedere la mostra delle opere di Kazuko Miyamoto al Madre di Napoli. Non avevo mai visto il museo Madre (che nome pazzesco che è? Madre sta per Museo d’Arte contemporanea DonnaREgina) ed era qualche anno che non tornavo a Napoli. Quindi mi sono preso un treno, ho chiesto compagnia alla migliore compagnia a cui potessi chiedere (cioè quella di una persona a cui voglio molto bene) e sono andato a vedere.
Dopo essermi lasciato attraversare da una quantità ingente di stupore (cfr. la puntata della newsletter), una delle prime cose che ho pensato guardando le opere di Kazuko Miyamoto è stata che non sembrano affatto ‘fragili’ come le immagineresti. Anzi. Sembra siano molto robuste. Quasi ‘abitabili’.
Ok. Facciamo un - piccolo - passo indietro.
Kazuko Miyamoto è un’artista visuale e performer nata nel 1942 a Tokyo in Giappone e da anni residente a New York. Negli anni ‘60 ha scoperto il minimalismo e ha conosciuto Sol LeWitt. Da lì in poi ha sviluppato un linguaggio che trascende il rigore geometrico del minimalismo stesso, grazie a una scelta profondamente ‘organica’ dei materiali e a un approccio performativo al corpo (al suo corpo). Le sue opere più famose sono queste grandi installazioni in cui fili e corde uniscono chiodi piantati alle pareti, nel pavimento, su varie superfici e tele. L’allineamento è preciso, impeccabile. Lo ‘slittamento’ visivo causato dalla ‘frequenza’ delle linee è ciò che ci attira e ci restituisce il mantra, l’atto quasi meditativo della sua esperienza creativa.
Tornando alla mostra. Quei fili (che poi a volte sono corde, altre addirittura carta da pacchi arravogliata e resa gomena) sono la struttura di un pensiero. Un pensiero che insiste nell’indicare qualcosa che appartiene al mondo e che ci incaponiamo nel voler ignorare. Tutto è connesso, siamo connessi. C’è un livello organico dell’esistenza da ri-scoprire e quel livello emerge nei fili, che ci stupiscono perché stanno insieme senza asfissiarci con la geometria necessaria (?) a individuare le trame del vivere insieme.
Mentre ero lì (l’allestimento è superbo, intelligentissimo eppure così invitante - unassuming direbbero a NY) e giravo attorno alle opere (andate a vedere la mostra, andate al Madre, c’è un sacco di roba incredibile, poi fuori c’è Napoli) mentre ero lì e giravo (giravamo) attorno alle opere a un certo punto mi si è piantato in un angolo della testa il pensiero al libro della Tripaldi di cui vi ho parlato sempre nella puntata sullo Stupore. In particolare i passaggi in cui vengono sottolineate le analogie tra la tela del ragno e la scoperta della tessitura e il valore che possiamo attribuire ai materiali complessi. Tirando le fila (pun intended):
“La forza dei nostri materiali innovativi migliori, in altre parole, risiede, come quella del tessuto, nella loro natura cooperativa e relazionale, che si esprime in una struttura diffusa e decentralizzata, conferendo al materiale proprietà che le sue singole parti non possiedono. Il risultato è un oggetto adattabile e resistente, perché la sua integrità non dipende dalla preservazione di pochi elementi ma dalla sinergia di tutte le fibre che lo compongono”.
Cioè la forza della bava del ragno così come quella del tessuto sta nella sua composizione sinergica. E quella delle opere della Miyamoto anche. Una sinergia determinata applicando la creatività (la relazionalità) alla geometria. Mentre Sol LeWitt (un genio, beninteso: sempre e solo amore per la sua arte) si spaccava schiena e cornee sui pattern, sulla struttura dei suoi mandala geometrici, la Miyamoto tirava via le linee dal muro e le tendeva verso il mondo. Tesseva la strada dei suoi materiali molto più che intelligenti da un punto (più punti) a un altro (agli altri).
E allora una cosa che mi è successa poi cercando l’uscita dal Madre è stato pensare ancora al telaio, alla forza di inventarsi la sinergia delle fibre, al Minotauro e al filo di Arianna e ai fili di Kazuko Miyamoto e al fatto che possiamo trovare dei modi bellissimi di unire le cose: dei leggeri e robusti monumenti alle nostre relazioni.
(c’è un’ultima nota, come sempre, in fondo)
Si intitola Konbini Vidéo Club ed è una serie francese in cui registi, attori, professionisti del mondo del cinema vengono invitati in una delle ultime videoteche di Parigi a parlare di film. Da Nolan a Östlund, da Wes Anderson a Brad Pitt. Pazzesco.
Spotify ha un problema con i ‘podcast’ di rumore bianco. Se ne seguite qualcuno (per i momenti di particolare stress io utilizzo 12 hours sound machines e ve lo consiglio) sapete di cosa sto parlando. In caso contrario, sappiate che c’è una nutrita programmazione proposta da moltissimi podcast attraverso cui ascoltare solo rumore bianco (rosa, marrone) o suoni di pioggia, suoni registrati in una foresta: più in generale suoni che servono a rilassarsi. Questi podcast sono seguitissimi e possono vantare numeri di streaming impressionanti, ma non prevedono ‘reali’ contenuti. Spotify sta pensando a come risolvere la cosa (hint: pare li stia cancellando un po’ alla chetichella).
L’incredibile storia di “Turn-On”, avveniristico programma televisivo del 1969 mandato in onda dalla ABC che veniva proposto come the First Computerized TV Show. Molto in anticipo sui tempi, creato sul modello della sketch comedy da Ed Friendly e George Schlatter, durò una sola puntata. Il claim era giustificato non solo perché Turn-on non prevedeva la presenza di un presentatore, sostituito da un computer che introduceva gli sketch, ma anche perché al posto delle risate venivano inseriti suoni di Moog. Davvero troppo anche per un pubblico che dopo pochi mesi avrebbe assistito all’atterraggio sulla luna.
Per proseguire in un certo senso il discorso sugli psichedelici accennato nello scorso numero della newsletter, vi consiglio questo puntualissimo articolo della MIT Technology Review che parla di “Allucinazione controllata”:
The entirety of perceptual experience is a neuronal fantasy that remains yoked to the world through a continuous making and remaking of perceptual best guesses, of controlled hallucinations. You could even say that we’re all hallucinating all the time. It’s just that when we agree about our hallucinations, that’s what we call reality.
Gli scienziati del Fermilab (sì, si chiama così in suo onore) hanno scoperto una quinta forza della natura studiando i Muoni. I Muoni sono particelle dei raggi cosmici, simili agli elettroni, che però si comportano in modo diverso (li hanno scoperti per questo). Dopo averli sparati in un acceleratore, si sono accorti che non rispondono proprio più alle leggi della fisica. Problema: il fatto che esista una quinta forza (oltre a Gravità, Elettromagnetismo, Forza forte e debole) non è in discussione per i dati ottenuti - che invece confermano tutto - ma (la dico in modo grezzo) perché la fisica teorica non lo prevede e quindi deve trovare delle nuove formulazioni.
Mentre le AI stanno invadendo in modo abbastanza cauto ma intenso i software di editing audio (circolano dei plug-in per Ableton Live decisamente impressionanti), Google sta recuperando terreno sulla generazione di testi con TextFX:
TextFX is an AI experiment that uses Google's PaLM 2 large language model. These 10 tools are designed to expand the writing process by generating creative possibilities with text and language.
UN LIBRO
”The kissing of kissing” è la prima raccolta di poesie di Hannah Emerson. L’ho scoperta tramite l’account Instagram di Maria Popova. Ho letto questa e sono rimasto folgorato. Hannah Emerson è una persona neurodivergente che soffre del disturbo dello spettro autistico non verbale. Per farla molto breve, non parla, ma riesce a comunicare attraverso altri linguaggi. Uno di questi è la scrittura e - nello specifico - la Poesia. La poesia della Emerson richiede di accettare alcune piccole regole, assolutamente approcciabili. L’uso delle ripetizioni, ad esempio, o le frasi che sembrano interrompersi per poi invece proseguire in un flusso in cui, a fine lettura, ci ritroviamo. Io non so e non so immaginare che fatica e - insieme - che scoperta liberatoria deve essere stata la poesia per la Emerson. Non so come ci si possa sentire con quel tipo di neurodivergenza. So però che le sue poesie sono bellissime, ricche e complesse, piene di un’insistenza buona, luminosa, passionale nei confronti delle cose del mondo. Il libro in qualche modo si trova (io l’ho preso): procuratevelo e fatevi del bene.
UN ALTRO
Non conoscevo né Sayaka Murata, né quello che credo sia il suo più grande successo in Italia, ovvero “La ragazza del convenience store”. Ascoltando “Comodino”, podcast niente male nonostante sia vittima saltuaria di quelli che definisco sciurismi (viene dal milanese sciura, ovviamente), scopro “I terrestri”. Uscito da noi nel 2021 sempre per E/O, racconta la vita di Natsuki, bambina che non vuole conformarsi alle aspettative sociali e immagina di combattere per la sua unicità grazie ai suoi poteri magici. Detta così sembra la trama di uno dei tanti anime con una maghetta per protagonista. In realtà “I terrestri” è un romanzo molto delicato e insieme violentissimo, che affronta la famiglia, la sessualità, la condizione femminile e i relativi traumi mantenendo la prospettiva disarmante e dolorosa di chi vive tutto in prima persona. Non facile, costruito con una precisione ansiogena, si tratta di un libro che è difficile smettere, nonostante vi stia pungolando in modo quasi sadico. Ottimo.
UNA APP
Per chi soffre di OCD, per chi ha bisogno di distogliere l’attenzione da qualcosa di dannoso, per chi vuole semplicemente rilassarsi: Sorting Therapy
UN ACCOUNT INSTAGRAM
Dal 2007, FotoAutomat restaura cabine fotografiche. Questo è il loro - splendido - account Instagram.
UN FILM
Era da un po’ che non mi capitava di imbattermi in un documentario che mi conquistasse. In questi ultimi trenta giorni ne ho visti due e ve ne parlo.
Il primo lo trovate su Mubi e su Prime Video (non so se sia anche su altre piattaforme). Si intitola “The Painter and the Thief”, lo ha girato un regista norvegese che si chiama Benjamin Ree, è prodotto da Neon e racconta la storia di una pittrice a cui vengono rubati due dipinti, esposti durante una mostra. Uno dei due ladri instaura con lei (e lei con lui) un rapporto molto profondo, diventando il soggetto di alcuni suoi lavori. La storia è piena di colpi di scena abbastanza incredibili, la regia cattura con una sensibilità mostruosa momenti molto intensi, il montaggio è praticamente perfetto (c’è una soluzione narrativa verso la fine che alza ulteriormente il livello) e la natura dei due emerge rivelando complessità e sentimenti che tracimano lo schermo. Commovente, intelligentissimo, imperdibile.
Il secondo si intitola “The Deepest Breath”, è prodotto dalla nostra amatissima A24 ed è disponibile su Netflix per la regia di Laura McGann. Prima cosa che voglio dirvi: se non sapete nulla della storia, non cercate informazioni. Seconda cosa: guardatelo con le cuffie migliori che avete perché il sound design è sbalorditivo e aggiunge moltissimo a un lavoro già incredibile dal punto di vista visivo. “The Deepest Breath” racconta la vita di Alessia Zecchini - apneista dall’incredibile talento - e della sua ascesa fino al record mondiale di 123 m in assetto costante. La vita della Zecchini incrocia quella di Stephen Keenan, inquieto irlandese che, dopo aver viaggiato per il mondo in cerca di uno scopo nella vita, si stabilisce in Egitto e fonda la sua scuola di immersione. Lo hanno già detto altri e mi accodo: il ‘personaggio’ della Zecchini è abbastanza fastidioso per via di una self confidence che sfocia in un egotismo costante (ed estenuante). La giustificazione più facile è quella che possiamo ascrivere alla sua storia personale: quando aveva solo quattordici anni la Zecchini surclassava atleti uomini e donne molto più maturi e, a causa di questo suo primeggiare, la federazione decise di mettere l’obbligo della maggiore età per gareggiare. Questo sicuramente ha influito nel suo approccio, ma viene anche da chiedersi come si permettesse fino a quel momento a dei minori di cimentarsi in competizioni dove si rischia la morte per asfissia… Comunque. Tralasciando simpatie o antipatie, la storia è un racconto molto suggestivo e ottimamente calibrato di una sportiva e della sua ossessione per l’acqua e il mare in particolare. Un racconto difficile, a tratti molto crudo (preparatevi: i cosiddetti blackout in emersione non sono sempre un bello spettacolo), con una quantità di riprese meravigliose e - come vi anticipavo - un sound design impeccabile. Recuperatelo.
A proposito di recuperi, quei patatoni degli Incompetenti ci hanno temporaneamente salutato con due post su Instagram (1 & 2) intitolati “Compiti per le vacanze”. Fortuna che sono bravissimi e compensano così la loro scarsa simpatia. Vabbè, la smetto ché non sono credibile. Dei dieci film consigliati ne ho recuperati quattro, ovvero:
”Nobody knows I’m here” (parte benino, finisce malissimo. C’è Jorge Garcia, ovvero Hugo di “Lost”).
”Lola” (ideona super low-budget, parte benino, finisce in un casino tipo orchestrali che hanno trovato l’erba buona).
”The Wonder” (puttanalamiseria che film. Corpo, religione, cibo. Brava come sempre Florence Pugh, bravissima Kila Lord Cassidy che lascia indietro sia la madre Elaine sia il padre, cioè Stephen Lord).
”Another Earth” (questo imho non dovete perdervelo. Brit Marling interpreta, produce e co-scrive con il regista Mike Cahill un film piccolo e pazzesco che parla di fantascienza, dolore e redenzione. C’è William Mapother, cioè Ethan di “Lost”).
UN DISCO
Difficile, molto difficile scegliere tra le tante cose ascoltate ultimamente, anche perché i dischi che mi hanno entusiasmato (fortunatamente) non mancano. Decido di consigliarvi uno degli ultimi: “Paisajes Para Torcer al Reloj” è un lavoro del duo cileno composto da Lorena Álvarez e Alejandro Palacios per la californiana, strepitosa Not Not Fun Records. Sei improvvisazioni registrate durante una residenza artistica, sei piccoli capolavori di suggestioni che arrivano dal deserto di Atacama e vengono modulate da un’intesa quasi sciamanica tra i due (lei è anche ballerina e performer, e in qualche modo si sente). Un lavoro aereo e totalmente a fuoco: una specie di stato di grazia dai connotati eterei e sabbiosi. Splendido.
Ovviamente (mi) sarebbe stato impossibile non pensare e non fare riferimento al linguaggio e alle analogie con fili e sinergia dei materiali. Il pensiero magari provo a districarlo più in là, il riferimento invece si è completato da sé quando mi sono imbattuto in questo post del Video Sound Art Festival di Milano. In particolare nel linguaggio costruito con i nodi delle popolazioni native sudamericane (storia incredibile: approfonditela) e nella meravigliosa idea di Maria Lai che ‘lega’ le case di Ulassai in Sardegna.