Questa è una newsletter che segnala e racconta storie.
'Intuizione', in inglese, non si scrive 'Intweetion',
ma si pronuncia - quasi - nello stesso modo.
UN PODCAST (e delle cose che provo a dire)
Adesso non sto a spiegarvi perché (alcuni di quelli che mi conoscono personalmente sanno), però ci sono due scrittori italiani verso cui sono molto riconoscente. Uno si chiama Antonio Centanin, ma tutti lo chiamano Aldo Nove e l’altro si chiama Paolo Nori. Con Aldo Nove ci siamo parlati durante una serata assurda e bellissima in Sardegna (alcuni di quelli che mi conoscono personalmente sanno), ma poi a Milano quando abitavamo vicini e lo incontravo non trovavo mai il coraggio di andare a disturbarlo. Paolo Nori invece me lo hanno presentato in un posto dove bazzica(va)no molti amici (c’entra la Sardegna anche ‘stavolta), ma poi mi sono intimidito molto e non sono riuscito a dirgli che gli sono riconoscente.
Comunque.
Paolo Nori è morto due volte. Non davvero, ma insomma quasi. La storia e le storie legate a questi due episodi sono diventati un podcast che si intitola - appunto - “Due volte che sono morto”, lo ha prodotto Chora Media per Rai Play Sound e Nori lo ha scritto in collaborazione con Silvia Righini. Se un po’ siete ‘del giro’ sapete già tutto e vi godete il racconto delle voci che concorrono alla ricostruzione delle vicende. Se invece no, secondo me è bene che io non vi sveli nulla.
Ora.
Ci si commuove molto ad ascoltare il podcast. Si commuove anche Nori, perché insomma, ripercorrere una tragedia simile, di cui si hanno anche ricordi un po’ sbiaditi che emergono come gli squali dei film, non deve essere facile. A me è successa una cosa strana, ascoltando la prima puntata. E la scrivo perché voglio ricordarmela, perché magari poi serve anche a voi e perché non ho la confidenza necessaria per mandare un messaggio a Nori e dirgli: sappi che ti sono ancora un po’ più riconoscente di prima.
La prima cosa che ho pensato l’ho pensata quando a un certo punto Nori dice:
C’è questa parola, ‘narcisista’ - è un po’ un insulto - ecco io, insultatemi pure, io credo di esserlo un po’, narcisista; cioè, io, per me, ho una tenerezza, che - secondo me - forse è brutto dirlo, ma a me mi ha salvato. Cioè, proprio lo dico: io mi piaccio. Cioè io lo so che dentro di me c’è qualcosa di buono, ecco, e vale la pena di scuoterlo e non farlo dormire, perché faccia qualcosa, perché agisca. Non lo so bene da dove viene questa presunzione, questa arroganza, però mi piace così tanto… È proprio la cosa che un po’ mi tiene al mondo e, secondo me, forse, questa cosa ha a che fare col fatto che io, allora, non ho mai pensato che sarebbe finita. Ecco.
Non so, se volete aggiungere altro, fate voi. Scrivetemi, parlatene con le persone che avete attorno. Rifletteteci quando uscite di casa. Fate voi.
La seconda cosa che ho pensato è che questo percorso che ha fatto Paolo Nori, questa auto-narrazione, anzi: questa auto-investigazione è una forma di accudimento di sé incredibile. Non è - credo - solo un tentativo di rimettere delle cose a posto, ma pure un modo per andare a prendersi cura di un sé che se l’è vista brutta. Che ha sofferto. Che ha avuto paura. C’è un momento in cui l’infermiere che ha portato in ospedale Nori durante il secondo episodio di quasi-morte, gli racconta che lui (Nori) voleva scappare. Che Nori aveva un trauma cranico pesante e che se il trauma cranico non ti mette del tutto KO, il tuo cervello sente una tale quantità di paura derivata dalla situazione di pericolo, che ti porta a fuggire. A scappare. E questo mi ha fatto (ri)pensare che il nostro cervello si inventa dei modi incredibili per metterci in salvo. Quando però diventano prassi (perché la situazione di pericolo è reiterata o siamo particolarmente allertati), è difficile distinguerli poi dai tratti della personalità - che diventano spesso i più difficili da gestire.
Però.
Però quelle modalità ci hanno messo in salvo. Ci hanno protetto. E si tratta di tornare e tranquillizzarci. Ora è tutto a posto. Almeno fino alla prossima emergenza. Siamo salvi. Siamo vivi. Siamo più bravi a fare i conti con la paura. Forse - chissà - siamo anche più buoni.
Io, fin da quando son piccolo, che ho il dubbio se sono buono oppure no. Ed è un dubbio che mi tormenta. Perché io non credo in Dio, ma ho avuto un’educazione cattolica, e quando ho scoperto che se non ero buono andavo all’inferno, ecco, quella lì è una cosa che m’ha toccato. Io non dormivo di notte perché mi chiedevo: come si fa ad essere buoni? Come si fa a diventare dei santi? - che era un po’ il mio obiettivo, sono sempre stato modesto. Dopo, una volta, ma da grande, avevo già più di quarant’anni, alla stazione di Parma, ricordo benissimo - stavo facendo tutt’altro - mi ricordo perfettamente il momento in cui ho pensato che noi non siamo buoni perché siamo buoni, siamo buoni se siamo buoni. Cioè non è che siamo buoni una volta per tutte, non c’è un ‘circolo dei santi’, non è che ti dan la tessera: dipende da te. Tutti i giorni. Da quello che fai, da quello che pensi e da quello che dici. E questa è una discreta responsabilità, ma è anche un gran sollievo.
Prima o poi glielo dico, che gli sono riconoscente.
The NID Tapes: Electronic Music from India 1969-1972: tra gli incalcolabili danni del colonialismo (più o meno evidenti, più o meno evidenziati) c’è anche quello di aver nascosto non solo intere culture, ma anche di aver sommerso - attraverso questo occultamento - specifiche espressioni di quelle stesse culture. E non solo le espressioni specifiche maggiormente legate alle tradizioni e alla storia dei paesi colonizzati, ma anche quelle che hanno comunicato con realtà nate in luoghi che non soffrivano i soprusi occidentali: ne erano l’origine. Io non sapevo affatto fosse esistita una scena elettronica indiana. Questa fenomenale raccolta del National Institute of Design di Ahmedabad, copre un arco di tre anni e contiene delle gemme assolute (anticipatrici di tanti esperimenti successivi).
The NID Tapes is an incredible haul of early Indian electronic experiments uncovered at the archives of the National Institute of Design in Ahmedabad by Paul Purgas over the last few years. Recorded between 1969-1972, the collection chronicles electronic works from the previously unknown Indian composers Gita Sarabhai, I.S. Mathur, Atul Desai, S.C. Shama and Jinraj Joshipura who worked at the nation’s first electronic music studio founded at the NID during the utopian years following India’s independence - a radical period of visionary experimentation and artistic freedom.
Come probabilmente immaginerete, l’argomento mi interessa non poco. Credo però possa essere altrettanto utile e interessante anche per chi è meno ossessionato di me leggere Here’s when you should (and shouldn’t) trust your gut e Your Hunch Was Wrong: Intuition Isn’t Inborn After All, due puntualissimi articoli pubblicati su Fastco. A entrambi tuttavia manca, a mio parere, quello che è il lato ‘spirituale’ della faccenda; ovvero come la componente ricettiva, che incrementa la possibilità di riconoscere pattern e velocizzare le risposte tanto da farle sembrare ‘intuitive’, può essere nutrita e ampliata attraverso canali diversi dalla pura osservazione (sto pensando ad esempio alla meditazione - o pratiche analoghe).
Somehow related: The Opposite of Déjà Vu Exists, And It's Even More Uncanny
Mark Slutsky ci ripropone una sua intervista di qualche anno fa a Satoshi Kon. Quantificare e tracciare i confini dell’influenza esercitata da “Paprika” sulla cinematografia mondiale - e soprattutto occidentale - è praticamente impossibile. Così come è praticamente impossibile prescindere dal capolavoro di animazione se vogliamo anche lontanamente iniziare ad approcciare l’immaginario visivo dei decenni successivi fino ai giorni nostri.
Nell’era pre-internet, il Whole Earth Catalog di Stewart Brand rappresentò una guida importante e decisamente sui generis agli acquisti. Non era solo uno strumento per veicolare recensioni di prodotti di vario tipo, ma offriva dritte sui prezzi migliori, disponibilità con relative guide, considerazioni e approfondimenti culturali sull’uso. Il tutto senza alcuna pubblicità. La pubblicazione è ufficialmente terminata nel 1986, ma è di fatto continuata ben oltre (con tentativi di chat collettiva degli utenti). Steve Jobs definì il progetto una sorta di Google ante litteram e non sbagliava affatto. Trovate tutte le uscite e i relativi ‘spin off’ a questo link. Un’esperienza di lettura e di approfondimento incredibile.
UN LIBRO
Tra la fine del XVII secolo e la prima metà del XVIII secolo una nuova idea di viaggio si diffonde in tutta Europa: inizia l’epoca del viaggiare per viaggiare, il viaggio diventa il fine e non più il mezzo per soddisfare un bisogno. Si viaggia in nome del sapere e della conoscenza, mossi dalla curiosità e da una volontà di scoperta, ma anche, perché no, per diletto e per un certo gusto d’evasione.
È così che nasce e si diffonde la moda del “viaggio in Italia”. Culla della cultura occidentale, l’Italia è un vero e proprio museo a cielo aperto grazie al ricco patrimonio di opere d’arte che custodisce e con un clima mite e tradizioni millenarie che affascinano i visitatori provenienti da nord.
Questo ambìto viaggio, che toccava anche i paesi continentali ma aveva come suo traguardo prediletto e irrinunciabile l’Italia, diviene una tappa fondamentale per i giovani rampolli dell’aristocrazia europea, così come per artisti, letterati, intellettuali, uomini di chiesa e di scienza e presto sarà noto con il nome di Grand Tour.
UN DISCO / DEI DISCHI
Dopo il divertentissimo video-trailer e la strepitosa cover che vedete nell’anteprima YouTube qui di seguito, ero davvero curioso di ascoltare “Again”, il nuovo lavoro di Oneohtrix Point Never (Daniel Lopatin). Curiosità sicuramente amplificata dall’ammirazione che nutro per il musicista di Boston: uno dei pochi capaci di restituirci alcuni dei migliori mondi sonori recenti, in dischi ambiziosi che non lasciano quasi mai scampo a chi ascolta. “Again” è probabilmente la summa di questa attitudine. Un animale sonoro che procede con un’andatura straripante e un’eleganza che non emerge sempre, ma che sicuramente scaturisce anche dalla sua abilità di stare nel suono, di affondarci mani e piedi (zampe) e grattarne le gemme molto vicine al fondale. Credo veramente che non abbia senso commentare i singoli brani di “Again” (eppure ci sarebbe da scrivere tantissimo, fino al coraggio di punzecchiare il fantasma dei Daft Punk), perché si tratta di un lavoro molto organico, in cui le tracce sono parte di un universo sonico pieno e strabordante; un universo in cui si naviga meglio sospendendo il giudizio (e un certo snobismo un po’ d’accatto).
Concluderei citando il finale della recensione del Guardian, che mi pare perfetta:
Again features some of Lopatin’s most touching music, where the disastrous and the sublime are always second-guessing each other.
Ho ‘tenuto per me’ questo disco che sto ascoltando da mesi e consiglio con accurata parsimonia, ma credo sia arrivato il momento di diffonderlo anche a quelli che non spulciano compulsivamente la sezione ambient di Bandcamp. Si intitola “fragments” e contiene venti mini-meditazioni musicali che Rachika Nayar ha estrapolato dalla sua pratica creativa con la chitarra. Compositrice e strumentista molto giovane e davvero fuori dal comune, la Nayar si aggira con grandissima padronanza in territori ambient elettroacustici. C’è un disco precedente e uno successivo a “fragments”, entrambi molto belli e con un’elettronica che coabita felicemente con il suono della chitarra elettrica. Tuttavia sono rimasto folgorato soprattutto da questa commistione quasi esoterica di abilità compositiva e spiritualità. A tal punto che i venti brani sono diventati per me una sorta di spazio acustico per una forma di meditazione a sé stante. Misticismi a parte, se non vi interessano sappiate comunque che “fragments” è un disco molto suggestivo e a fuoco (pur contenendo tracce così brevi); un lavoro rimanda tanto al post-rock quanto ad alcune soluzioni di John Fahey. La forza della Nayar è in un approccio alla composizione (e allo strumento e alla sua queerness - è una ragazza trans) che decostruisce mentre mette pazientemente (e sapientemente) in piedi paesaggi sonori di enorme fascino. Come scrivono in questo eccellente articolo su The Fader: “Rachika Nayar wants to destroy you and put you back together”. Lasciateglielo fare.
Tramite le ‘solite’ connessioni (che non sono mai) accidentali e che mi portano all’amatissima attività di unire i puntini, sono approdato all’opera di Robert Ashley. Nonostante fossi completamente digiuno del suo lavoro e del suo fondamentale ruolo nel rivoluzionare il teatro e la musica operistica - negli Stati Uniti prima e nel mondo poi - ho avvertito subito uno stranissimo senso di familiarità con la sua musica. Forse lo ho distrattamente ascoltato in altri momenti della mia vita (non credo) o forse questa sensazione dipende da una specie di vocazione che ha caratterizzato buona parte della sua carriera.
Nato nel maggio del 1930 a Ann Arbor in Michigan, Robert Ashley è stato (tra le altre cose) uno studente di acustica, un ricercatore di psicoacustica, il fondatore del “ONCE festival” e un membro del “Sonic Arts Union” insieme a personaggi come Alvin Lucier.
Definire chi sia stato Ashley oltre la sua attività accademica è molto difficile, perché il suo ruolo è stato profondamente trasversale tanto al mondo della musica ‘colta’ che a quello della musica ‘popolare’. Ashley ha rivoluzionato senza compromessi, ma lo ha fatto inabissandosi nella cultura statunitense e nelle sue radici. La tradizione orale, l’intrattenimento, il teatro di strada, la televisione: nel corpus di Ashley tutto si rimescola, ma ritrova il suo posto, sia pure nella fantasmagoria di una rivoluzione stordente e - insieme - quotidiana.
Oggi Ashley è giustamente ricordato, anzitutto, come rivoluzionario performer, narratore onnisciente e deus ex machina di opere “da camera” sperimentali concepite per la televisione (“Music with Roots in the Aether” e “Perfect Lives”), non soltanto nel tentativo di anticipare inedite modalità di fruizione della musica d’arte contemporanea, ma soprattutto per fornirle quella che il compositore considerava l’unica possibilità di salvezza da una sterile imitazione di forme espressive obsolete – nello specifico, l’opera teatrale classica.
Poi c’è la parola. Limite e strumento, dannazione e estasi involontaria. Gioia nella ripetizione e nella narrazione quasi coatta alla performance. Ashley si inventa un modo di parlare che non è recitazione, ma è interpretativo come può essere l’atto di suonare uno strumento. Siamo nella zona soffusa e gelatinosa della musica sperimentale dei tardi anni ‘70 (c’è anche molta elettronica nel suo lavoro), con tanti contemporanei (Glass) che colgono nella ripetizione modulata l’occasione imperdibile per scardinare la linearità di un’opera d’arte che cerca ancora l’intrattenimento nella sua forma più rassicurante.
Ritenendosi affetto da una forma lieve della sindrome di Tourette, l’autore aveva tentato a più riprese di riproporla in veste artistica, finendo però con l’emularla artificiosamente e quasi sempre in pieno stato di coscienza. Ashley, invece, considerava la sindrome come una fonte spontanea di composizione sonora del tutto affrancata dalla volontà individuale, perciò il suo obiettivo ultimo era quello di ricondurla verso l’istinto creativo e fissarla su un supporto riproducibile.
Poi (è il 1978) arriva “Perfect Lives”.
Perfect Lives has been called "the most influential music/theater/literary work of the 1980s." At its center is the hypnotic voice of Robert Ashley. His continuous song narrates the events of the story and describes a 1980's update of the mythology of small town America. Perfect Lives is populated with myriad characters revolving around two musicians — "R", the singer of myth and legend, and his friend, Buddy, "The World's Greatest Piano Player". They have come to a small town in the Midwest to entertain at the Perfect Lives Lounge. As Robert Ashley describes in the opera synopsis, "they fall in with two locals to commit the perfect crime, a metaphor for something philosophical: in this case, to remove a sizable about of money from The Bank for one day (and one day only) and let the whole world know that it was missing."
Ashley costruisce un’opera (appunto) monumentale. Una storia che scantona in mille suggestioni oniriche, quasi surrealiste, zeppa di sperimentazioni grafiche, linguistiche, melodiche, ritmiche. Un monumento all’idea di Opera che riscatta la sua assoluta assenza nella cultura popolare americana e che chiama in causa il video (la televisione) per ricreare un impianto scenico immateriale eppure altrettanto potente nei salotti di tutto - o quasi - il paese. Rappresentata per anni ovunque, “Perfect Lives” è il punto di arrivo e di (ri)partenza di una generazione. Sono gli ‘80 che sparigliano prima di asciugarsi tristemente - e ingiustamente - col finire del decennio. È il massimalismo prima ancora di capire che avrebbe invaso ogni campo della cultura e dello spettacolo.
Un genio assoluto. Iniziate da dove preferite e scopritelo con calma.
…ma magari non eri neanche te.
FOTOGRAFIA
Quelle di Dorothy Sing Zhang non sono foto ‘facili’. Nella sua poetica c’è un’indagine - uno studio - meticoloso, urgente, ravvicinato della maternità, una stranissima ironia (di matrice decisamente asiatica), una curiosità quasi (quasi) morbosa per la vulnerabilità umana e la - conseguente (?) - necessità di protezione. Io vi invito a osservare il suo lavoro con attenzione e con molta ‘disponibilità’ per coglierne la potenza trasformativa. Un’artista eccellente.
UN FILM
Se di “Barbie” non si può - ancora - parlare, a meno di non cimentarsi in uno slalom tra trigger warnings, c’è un film di cui si può - ancora - parlare senza che - ancora - ci vengano troppo a noia quellə che - vi vedo - ne parleranno a breve, piantando nuovi (inutili, noiosissimi) trigger warnings spiegandoci pure come e perché dovremo ‘leggerlo’. Siccome poi sono uno a cui piace vivere pericolosamente, sfido la sorte e i dettami del mansplaining (…) e vi dico che se avete voglia di vedere un film femminista bello da morire, divertentissimo, che mena (pun intended) come un* murator* brescian*, dovete correre a guardare “Bottoms”.
Il nuovo film di Emma Seligman (recuperate “Shiva Baby” - ve ne avevo già parlato qui), scritto insieme a quella dea del talento di Rachel Sennott, è una specie di fenomenale teen-movie aggiornato al 2023. Cosa succede in “Bottoms”? Che due compagne di scuola gay (la Sennott e Ayo Edebiri), vogliono avere una storia con le due cheerleader di cui sono invaghite e, per riuscire a concupirle, non trovano di meglio che inventarsi una specie di corso di sopravvivenza alla violenza di genere che consiste principalmente nell’imparare a dare mazzate. Nel corso coinvolgono sia le amiche nerd (si sarebbe detto un tempo) che le cheerleader e iniziano uno strano apprendistato senza alcuna intenzione femminista, ma che - ça va sans dire - ne produce i risultati. Coming of age a cannone, risate continue, gli aspetti deleteri della mascolinità ridicolizzati in ogni sua forma in modo grandioso, le contraddizioni del mondo gay ridicolizzate con una sprezzante ferocia: non si salva nessuno e - siccome la Seligman e la Sennott sono intelligentissime - si salvano tutti. Guardatelo, ascoltate la superba recensione de Gli Incompetenti e lasciatemelo dire: un film necessario. Bump. Mic drop.